Soffre massimamente chi soffre solo” dice Seneca, un aforisma che potrebbe nascondere una duplice interpretazione.

Se ti senti solo in questo momento, lo percepirai legato alla solitudine: soffro perché mi sento solo!

Se hai conosciuto la sofferenza fisica o emotiva (chi non l’ha provata?) invece, sentirai un pugno sullo stomaco e potresti pensare che la solitudine sia il minore dei mali… che a volte può aiutarti a metabolizzare il dolore.

Un’affermazione, dicevo, che può fuorviare; a me in ogni caso parla di sofferenza. Che sia vissuta in modo individuale o corale, passa in secondo piano.

Poiché, è un argomento del tutto individuale e soggettivo, le mie considerazioni riguardano la mia storia personale e le mie credenze.

Ho la convinzione che la sofferenza sia parte della vita di ogni essere umano, indispensabile per la sua evoluzione.

Quando nasciamo dovendo lasciare il grembo materno, subiamo il primo trauma; chi assiste alla nascita di un bambino sa che il neonato è amorevolmente sculacciato ed è attraverso il suo primo pianto che scopriremo se va tutto bene.

In questo caso la sofferenza ha uno scopo, ma è sempre così?

Paradossalmente sì, senza la percezione del dolore potrebbero accadere cose molto spiacevoli, sia fisicamente sia emotivamente.

Torniamo al bambino appena nato, esprimerà il suo disagio con il pianto che diventerà il suo modo di comunicare.

Con la sofferenza comunichiamo noi stessi, la nostra interiorità, la nostra esistenza.

Ci sono persone che usano il loro malessere per dire al mondo e alle persone che amano che esistono, che hanno bisogno di essere amate, riconosciute, apprezzate.

Prendiamo quindi atto che la sofferenza c’è e fa parte della nostra vita, quello che sarebbe interessante scoprire è se ci sia un modo per “valorizzarla”.

Sembra assurdo anche solo immaginare che possa essere considerata un valore, eppure se adeguatamente riconosciuta può diventare amica e accompagnarci ad affrontare i passi successivi del nostro percorso, in modo da esserne consapevoli.

La sofferenza però ci spaventa, non possiamo prevederla né scendere a patti con lei, quindi è anche legata alla paura.

Ho vissuto un’esperienza e ho sofferto; poiché non voglio più stare male, smetto di vivere esperienze analoghe.

In questi casi è come non aver compreso il messaggio di cui la sofferenza era latrice; magari era sbagliato solo l’approccio, non la cosa in sé.

Lasciamo che sia la paura a governare la nostra vita? Sarebbe un peccato rinunciare a priori no?

Tuttavia non sempre riusciamo a valorizzarla o a comprendere il suo messaggio; ci sono eventi della vita ai quali non sai dare spiegazione, la perdita di un figlio ad esempio: puoi continuare a chiederti se e cosa hai sbagliato?

Oppure una sua malattia: dove sta il valore nel vedere una persona che ami vivere tante atrocità?

L’apoteosi della sofferenza?
Mi si è fissata un’immagine nella mente: la crocefissione di Cristo, la sua sofferenza per salvare gli uomini e immediatamente dopo un’altra, quella di sua madre che assiste impotente alla morte del figlio. Un dolore che trapassa il cuore e che niente e nessun essere umano può lenire.
Nel mio caso, dopo aver perso la mia prima figlia Paola a soli 19 anni e aver avuto Martino con i suoi problemi di autismo, ho a lungo scavato per cercare spiegazioni o colpe…

Non ho trovato né l’uno né l’altro.
Alla fine ho affrontato tutto ciò come una sfida che la vita mi ha proposto e che io ho accettato senza condizioni.

Che cosa ho fatto e continuo a fare?
Prendo il meglio, molto in verità, e cerco di guardare alla vita con curiosità pensando che il bello deve ancora arrivare.
Ho accettato la sofferenza come opportunità, più che come espiazione, ho cercato di valorizzarla.

In questi anni ci sono stati momenti in cui ho avuto la sensazione che tutto fosse più grande e difficile di quanto io fossi in grado di sopportare e in quei frangenti ho sentito il bisogno di condividere il mio dolore; ma come potevano aiutarmi gli altri?

In verità io avevo solo bisogno di sapere che anche altri prima di me avevano affrontato e superato ostacoli uguali o simili ai miei.

Non mi era utile unicamente dare sfogo al dolore, cercavo strumenti, modelli ispirativi, per sentirmi più forte e adeguata.

Altre persone avevano affrontato e superato l’ostacolo, per quale motivo non potevo riuscirci anch’io?

Ho vissuto momenti di grande solitudine in mezzo ad una marea di gente, una sofferenza veramente profonda; sapevo che uscirne dipendeva solo ed esclusivamente da me…

Penso che la sofferenza sia un’esperienza ad alto tasso di soggettività e che gli altri siano sempre e comunque degli spettatori.

Certo recitare senza pubblico non è proprio il massimo…